• Kellermann Editore
07-04-2021

Un'intervista di Emiliano Reali a Pablo Echaurren pubblicata su "Il Riformista" martedì 06 aprile 2021. (link versione web)

"La Biennale come Lourdes, io dico agli artisti: smettete!"

Il saggio polemico di un intellettuale multiforme, che spara a zero su un mondo iper mercificato: "Si fa credere a tutti di poter essere artisti ma non è così. Non è un attacco alla creatività ma alle illusioni che si creano"

L’artista multiforme Pablo Echaurren ha compiuto da poco settant’anni. Una vita controcorrente la sua, quella di un uomo che non si è mai assoggettato al sistema. La spinta all’innovazione e alla contaminazione lo hanno sempre guidato nell’esprimersi. Figlio del pittore surrealista cileno Roberto Echaurren, negli anni si è contraddistinto per la sua versatilità, rifuggendo da regole o incasellamenti che ne avrebbero mutilato la creatività. Fin dagli anni ’70 espone i suoi quadri in Italia e all’estero; è stato autore della copertina di Porci con le ali e di quelle di altri romanzi della casa editrice di estrema sinistra Savelli; a lui si deve la creazione di fumetti d’avanguardia come Caffeina d’Europa. Vita di Marinetti, Majakovskij, Vita disegnata di Dino Campana; di svariati saggi di critica d’arte e di nostalgiche testimonianze come Compagni e Parole ribelli. ‘68 e dintorni.

Ha collaborato con Lotta Continua e altre riviste rivolgendo costantemente la sua attenzione verso il sociale. Nel documentario Piccoli ergastoli ha denunciato la vita nelle carceri, dove la violenza spesso sta nelle piccole privazioni quotidiane, nei gesti dell’uomo che schiaccia l’uomo. Nel 2016 il Cile gli ha reso omaggio con una retrospettiva al Museo Nacional de Bellas Artes di Santiago, e nel 2017, a quarant’anni dai moti del ‘77, Eucharren ha realizzato il documentario Indiani metropolitani. Ironia e creatività nel movimento del ‘77, opera sulle contestazioni giovanili che recuperavano i linguaggi delle avanguardie artistiche per farne uno strumento di agitazione politica ed esistenziale. Il prossimo 5 maggio uscirà il suo pamphlet Adotta un artista e convincilo a smettere per il suo bene (Kellermann, 112 pagine, euro 13) dove decreta, per mezzo di un’invettiva, la morte dell’arte, ormai resuscitata come merce che trova il suo valore e fine ultimo nel prezzo che le viene riconosciuto, e racconta, amareggiato, di artisti che con le loro armi spuntate si aggirano intorno al palazzo del potere non per minarne le fondamenta, piuttosto per tentare avidamente di esservi accettati.

Adotta un artista e convincilo a smettere per il suo bene, come è nato questo titolo?
Nella seconda metà degli anni ’90 avevo fondato insieme al cyber-artista Giuseppe Tubi il partito del tubo. Uno degli slogan era “adotta un politico e convincilo a smettere” e si è scelto di riadattarlo all’occasione.

Il libro uscirà in concomitanza con la Biennale, una provocazione visto che all’interno dell’opera la definisce la Lourdes dell’arte, nauseabonda e mortificante?
È stata una scelta mirata dell’editore, per me questo è un libro che descrive la condizione degli ultimi decenni, la realtà tragica in cui ci troviamo a vivere, quindi avrebbe potuto uscire in qualsiasi altro momento.

Nel testo afferma che l’arte viene utilizzata per dissimulare e imbrigliare lo scontento.
L’arte è divenuta una specie di camera di compensazione della disoccupazione giovanile. Si dà l’illusione che chiunque possa essere un artista e che ad attenderlo ci siano grandi guadagni. Nell’arte le tensioni sociali trovano uno sfogatoio, sublimandosi e divenendo innocue, ormai devitalizzate e museificate. Quando nel titolo consiglio di convincere gli artisti a smettere mi riferisco al credere in questo sistema di illusioni, non di certo ad abiurare alla loro creatività.

Siamo al cospetto di un nugolo di egocentrici conniventi col sistema capitalistico, esistono ancora i veri artisti?
Ci sono dei tentativi che si concretizzano in luoghi no-profit, aggregazioni in occupazioni, ma non hanno visibilità e sono privi della simpatia del sistema dell’arte, se la conquistassero vorrebbe dire essere sussunti e devitalizzati.

L’arte contemporanea non è altro che mercificazione quindi?
Negli anni ’70 il nostro sogno era uccidere l’arte e farla resuscitare nella vita quotidiana, sottraendola al predominio del mercato. Negli ultimi quarant’anni è successo il contrario, l’arte è stata uccisa per trasformarla in merce, anzi ha scelto di suicidarsi. È inconcepibile che il valore di un’opera d’arte oggi venga calcolato in base al prezzo che le si assegna e non viceversa.

Lei insiste molto sulla manipolazione speculativa dell’arte.
Più che far lievitare all’asta il costo di un’opera per servirsi di tale valore nominale per abbattere le tasse di fantomatici donatori a musei compiacenti, più che l’utilizzo di queste cifre gonfiate per trasferire capitali leciti o illeciti in paradisi fiscali, quello che mi infastidisce maggiormente è la macchina che sta dietro la creazione di nuovi “geni”, che utilizza spazi e soldi pubblici per fini privati.

Ha sempre agito fuori dai canoni, qual è stata la sua più grande provocazione?
Dar sfogo alla creatività in luoghi non propriamente deputati all’arte, senza il consenso del sistema.

Nel libro “Compagni” delinea i tratti di una generazione che dopo esser stata protagonista con gli eventi culminati nel ‘77 si è dispersa. Ne sente la nostalgia?
Beh sì, quello è stato un momento in cui sembrava possibile inverare l’idea che l’arte e la creatività fuggissero dalle singole mani per diventare un bene collettivo. Nell’anonimato dei gesti c’era una genuinità assoluta.

Cosa penserebbero gli Indiani Metropolitani dei giovani di oggi?
La peculiarità del gruppo era non avere una visione univoca, una concezione granitica della realtà, quindi la domanda andrebbe posta ad ognuno, singolarmente. Per quanto mi riguarda credo che i giovani di oggi, almeno quelli che incontro io, che non sono soggiogati da Chiara Ferragni, siano disponibili e aperti. Mi aspetto più da loro che dai miei coetanei o dalla generazione successiva alla mia.

Come cileno, lo era ancora a quei tempi, e come artista dissidente, il colpo di stato di Pinochet l’ha segnata?
Quell’avvenimento ha colpito tutti noi, quando ho cominciato a collaborare con Lotta Continua ho realizzando un poster sul golpe in Cile.

Nel 1997 col documentario “Piccoli ergastoli” ha raccontato la vita nelle carceri italiane, qualcosa è cambiato?
In quel periodo frequentavo molto le carceri, cosa che non faccio più da tempo. Credo che la situazione sia simile, mi sembra che in Italia non avvengano grandi cambiamenti in nessun campo.

Nel 2017 a Roma è stata organizzata una mostra delle sue opere abbinate alle foto di Tano D’Amico, è stata una sua idea?
No, però ne sono stato felice. Tano è una delle poche persone assolutamente oneste e sincere che io abbia incontrato nella vita, i suoi scatti nelle carceri sono indimenticabili.

L’arte vera non si compra, ma si merita, non è un investimento ma uno svestimento, una messa a nudo. È ipotizzabile un suo ritorno?
Io sono pessimista di natura, ma penso che le cose cambino e si evolvano in continuazione, l’essere umano ha una serie di necessità e una di queste è smontare quello che è stato costruito, quindi ci sarà sempre la possibilità che qualcuno si metta di traverso.